Diritto della proprietà industriale ed intellettuale

Cassazione: legittimma la rivendicazione del nome del professionista come marchio.

la Suprema Corte ha stabilito che il confine tra studio professionale e azienda deve essere valutato caso per caso, ove la dimensione della struttura, l’impiego di mezzi e di capitali, il numero di addetti, l’ampiezza dei locali “sovrastino l’attività professionale del titolare, o quanto meno si pongano, rispetto ad essa, come entità giuridica dotata di una propria rilevanza strutturale e funzionale che, seppure non separata dall’attività del titolare, assuma una rilevanza economica” (Cass. n. 2860/2010).

Il nome di persone note può divenire un bene immateriale, oggetto di un diritto esclusivo di utilizzazione economica, ove abbia la capacità di richiamarne la consolidata reputazione, mentre la notorietà del nome di un professionista, intesa come rinomanza in un dato ambiente professionale, è in grado di assegnare al nome stesso una specifica capacità evocativa nei terzi e, in particolare, nei clienti. Il nome è il segno legale distintivo della persona e costituisce l’oggetto del relativo diritto, il cui esercizio è cedibile dagli aventi causa nei limiti di legge. Il diritto al nome ne conferisce al titolare (c.d. denotato):
– l’uso in via esclusiva;
– il potere di impedirne a terzi l’uso indebito e pregiudizievole (art. 7 c.c.);
– la registrabilità come marchio, purché atto a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese (art. 7 del DLgs. n. 30/2005).

Generalmente, l’uso del nome altrui non richiede alcun consenso, essendone contestabile solo l’uso indebito e idoneo a recare pregiudizio, mentre il nome altrui può essere registrato come marchio, anche senza il consenso del denotato, ma la registrazione può essere impugnata se vi è lesione della fama, del credito o del decoro del denotato o il nome è identico o simile a un segno già noto adottato da altra impresa (ditta, denominazione, ragione sociale, insegna, nome a dominio) e, a causa dell’identità o affinità fra prodotti o servizi, può determinarsi un rischio di confusione per il pubblico.

Per la registrazione del nome notoriocome marchio, invece, è necessario il consenso del denotato o dei suoi eredi. La disposizione inter vivos del nome del professionista e la sua registrazione come marchio, quindi, sono astrattamente lecite, ma si inseriscono nel complesso dibattito circa la natura imprenditoriale dell’attività professionale.

In materia, l’Agenzia delle Entrate (ris. n. 30/2006) ha ricondotto nell’ambito dei redditi diversi, ex art. 67 del TUIR, la tassazione del corrispettivo percepito per la concessione a un terzo dell’uso, per cinque anni, del nome di uno studio professionale, per incrementare la reputazione e la clientela del concessionario: pur non realizzandosi un’effettiva cessione, il costo per fruire del nome notorio al fine di ampliare la clientela è considerato inerente all’esercizio dell’attività professionale e deducibile nella determinazione del reddito da lavoro autonomo secondo il principio di cassa. Nella ris. n. 255/2009, invece, l’Agenzia afferma che il compenso per la cessione dello sfruttamento economico del diritto d’immagine di un professionista, pur non essendo riconducibile all’attività professionale, configura reddito da lavoro autonomo ex art. 54 del TUIR: le componenti positive dei redditi professionali sono costituite anche dal corrispettivo della cessione di elementi immateriali riferibili all’attività professionale, tra i quali vi è anche il nome del professionista.

Quanto alle disposizioni mortis causa, a tutela del proprio nome, il professionista testatore può apporre condizioni (concedo il mio nome in uso alla omonima associazione professionale a condizione che tra gli associati vi sia un mio discendente) od oneri, se la prestazione imposta è economicamente valutabile (concedo il mio nome in uso alla omonima associazione professionale purché la stessa faccia erigere una statua che mi raffiguri).

La Suprema Corte, poi, ha chiarito che il principio cardine che deve informare le disposizioni del nome del professionista defunto è la tutela dei terzi e, in particolare, dei clienti. Pertanto, “neppure l’eventuale consenso degli eredi potrebbe bastare a legittimare l’uso del nome di un professionista che nessun rapporto diretto abbia mai avuto con la società o con l’associazione della cui denominazione si discute” (Cass. 1476/2007).

Ciascun Ordine professionale, infine, disciplina la materia con norme ad hoc. Per esempio, il Codice deontologico forense stabilisce che si può indicare il nome di un avvocato defunto, che abbia fatto parte dello studio, purché egli lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero vi sia il consenso unanime degli eredi. In conclusione, appaiono lecite, purché entro i limiti di legge, dell’autonomia contrattuale e nel rispetto delle norme deontologiche, sia la registrazione del nome di un professionistacome marchio, sia le disposizioni inter vivos e mortis causa del diritto all’uso del nome al fine di sfruttarne economicamente la notorietà e la capacità di richiamarne la consolidata reputazione.