231/01 - Modello Organizzativo Cassazione Diritto Penale

231 e sanzioni interdittive: conta il comportamento concreto dell’ENTE.

Mio Logo 2014Con la sentenza n. 37712/2014 – Cassazione Penale, Sez. II, – depositata il 15 settembre 2014, la Suprema Corte ribadisce alcuni importanti principi in materia di presupposti per l’applicazione all’ente di una misura cautelare interdittiva ex D.Lgs. 231/01 (nella specie il “divieto di contrattare con la P.A. per un anno”).

Come noto, l’art. 9 del DLgs. 231/2001 contempla, al suo secondo comma, una serie di sanzioni interdittive per gli illeciti amministrativi dipendenti dalla commissione di reato: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Tali sanzioni sono particolarmente invasive in quanto hanno il preciso obiettivo di impedire qualsiasi attività delittuosa in capo all’impresa. Per tale motivo il legislatore ne dispone l’applicazione solo in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste e solo se ricorra almeno una delle seguenti condizioni:
– l’ente ha tratto dall’illecito un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione. In quest’ultimo caso la commissione del reato deve essere stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
– in caso di reiterazione degli illeciti.

Data la particolare efficacia afflittiva di tali sanzioni, che di fatto vanno a delimitare il campo d’azione dell’ente, il legislatore ne ha limitato l’applicazione solo ai reati più gravi, stabilendo inoltre che la loro durata sia compresa tra un minimo di tre mesi e un massimo di due anni.

Occupandosi dunque dei requisiti necessario per poter applicare la misura interdittiva, la Corte ha dedicato subito attenzione al requisito di cui all’art. 13 co. 1 lett. a) D.Lgs. 231/01, che prevede quale condizione di applicabilità delle sanzioni interdittive e, quindi, anche della loro applicazione in via cautelare, il fatto che l’ente abbia tratto “un profitto di rilevante entità”, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la nozione di profitto di rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito.
La Suprema Corte ricorda anche il pacifico principio di alternatività di tale condizione con quella di cui alla lett. b)  del medesimo art. 13 concernente la “reiterazione degli illeciti”.

Altrettanto precisamente è stato detto in merito alla valutazione di permanenza del “periculum” di commissione di nuovi illeciti (condizione ex art. 45 co. 1 D.Lgs. 231/01 per l’applicazione della misura) in caso di estromissione e sostituzione degli amministratori richiamando, sostanzialmente, quanto ebbe già modo di affermato dalla Sesta sezione penale con sentenza n. 32626/2006, “la sostituzione o l’estromissione degli amministratori coinvolti possa portare ad escludere la sussistenza del periculum richiesto dall’art. 45 cit., ma a condizione che ciò rappresenti il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione, in cui sia presente l’obiettivo di evitare il rischio reato“.

E a questi principi si ispira la più recente Cassazione che si esprime in questo senso: “Per quanto riguarda il cambio di amministratore (non è più l’indagato…)… si sottolinea come tale cambio sia strumentale alla presentazione dell’appello data la stretta “contiguità temporale tra i due eventi” e per il fatto che nel verbale di assemblea non sono spiegate le ragioni di tale sostituzione nè vengono indicate le competenze e professionalità del nuovo amministratore appena trentenne. Il Tribunale, inoltre, osserva che nella denominazione sociale permane il riferimento a …. e che non vi è alcuna prova che questi sia uscito dal gruppo e non abbia più alcuna influenza su di esso”.

La sentenza tocca anche, pur lasciando molte perplessità, l’utilizzabilità in seno al procedimento 231 dello strumento di indagine e prova costituito dalle ntercettazioni telefoniche. Molti i dubbi sollevati in dottrina sull’utilizzabilità probatoria di tale strumento per la valutazione di responsabilità dell’ente, alla luce dei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p. e dei limiti espressi dall’art. 270 c.p.p. per l’utilizzabilità delle intercettazione “in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”.
La sentenza tuttavia prende decisamente posizione e “ammette” l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche non soltanto in relazione alle valutazioni sulla commissione o meno dei reati in ordine ai quali sono state disposte, ma altresì per supportare il giudizio di sussistenza  di condizioni per l’applicazione di misure cautelari proprie e peculiari del procedimento 231: “intercettazioni telefoniche che confermano la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede… solo grazie alle intercettazioni è stato possibile scoprire l’inganno posto in essere dalla società ricorrente e iniziare così l’attuale procedimento”.

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